3 febbraio 2010
Bonificare (il diritto del)l’ambiente
Scegliere l’argomento e il taglio da dare a questo primo articolo su Postilla – devo ammetterlo – è stato tutt’altro che semplice: quando la voglia di parlare, di comunicare, di informare, di confrontarsi è così grande, beh, la scelta risulta essere paradossalmente difficile. Specie quando l’argomento – l’ambiente, i suoi diritti, il suo diritto – rappresenta il nostro futuro…
Sciolti gli indugi, ho deciso di partire là dov’è cominciata, quasi due anni fa, la mia attività di blogger: dalle bonifiche.
Credo che il motivo “inconscio” sia questo: a volte, nella vita, occorre fare tabula rasa, bonificare, prima di cominciare, autorevolmente, un nuovo progetto.
Questa necessità nasce dal fatto che, diversamente, il rischio di imbattersi, sempre, negli stessi ostacoli, nelle stesse discussioni, nello stesso schema del cane che si morde la coda, è alto. Molto alto.
Anche nel diritto ambientale – sfiancato da anni di riforme, controriforme, annunci di riforme, pasticci legislativi, deroghe, eccezioni, confusioni interpretative – una bella bonifica non farebbe male…perché il diritto dell’ambiente, nel nostro Paese, sembra essere stato ideato più per rispondere alle perenni emergenze, continuamente prorogate – un settore, questo, nel quale non siamo secondi a nessuno – che alle reali problematiche ambientali.
Dicevo, le bonifiche.
Allora – era il marzo 2008 – prendendo spunto da una puntata di Report (“Terra Bruciata”), parlavo delle emergenze ambientali (le bonifiche, per l’appunto) utilizzate come ammortizzatori sociali.
Oggi voglio cominciare ad accennare ad alcuni dei più urgenti aspetti del variegato mondo delle bonifiche, con i quali occorre confrontarsi:
- il decommissioning industriale e la gestione dei brownfields;
- l’omessa bonifica;
- le responsabilità dei proprietari incolpevoli dell’inquinamento;
- la gestione delle acque emunte dalla falda.
Perché è di primaria importanza affrontare questo tipo di problematiche?
In relazione al primo punto (decommissioning industriale; gestione dei brownfileds) partirei da un aforisma di Koll Schretzenmayer (“lo sviluppo industriale si è trasformato in de-industrializzazione”), nel quale si possono scorgere molte delle principali problematiche connesse all’odierna bonifica dei siti industriali contaminati.
Negli ultimi anni, infatti, il numero dei siti industriali obsoleti, inquinati, non più redditizi e, di conseguenza, abbandonati, è cresciuto in maniera esponenziale, unitamente all’elevato numero di siti militari smantellati all’indomani della fine della Guerra fredda. Avanti di questo passo, le odierne periferie – ma a volte anche ampi spazi in zone una volta periferiche, e oggi facenti parte del tessuto urbano – delle grandi aree urbane, si sono trasformate, e oggi risultano essere caratterizzate dalla massiccia presenza di grandi edifici industriali dismessi, quartieri degradati, siti contaminati.
Cosa fare di queste aree, in un contesto urbanistico che non può più espandersi?
Quali fra le diverse, possibili soluzioni (restauro ambientale; conservazione edilizia; ristrutturazione; decommisioning) è opportuno scegliere?
Quali sono le opportunità che il riutilizzo del patrimonio industriale dismesso offre a chi bonifica e ricostruisce?
L’omessa bonifica rappresenta una questione spinosa per le preoccupanti conseguenze che la sua contorta previsione comporta nella realtà pratica, fra interpretazioni contrapposte (alcune delle quali incredibili…) del giudice di legittimità, imbarazzanti silenzi, e modifiche di facciata.
Anche all’indomani dell’entrata in vigore del “mirabolante” “Testo Unico Ambientale”, gli interrogativi rimangono quelli di una volta: quando il legislatore proclama che “chiunque cagiona l’inquinamento […] è punito […] se non provvede alla bonifica”, cosa intende dire?
Ha voluto punire l’inquinamento, a condizione che non si sia provveduto alla bonifica oppure l’omessa bonifica?
In relazione alle responsabilità, il D.Lgs n. 152/06 ha sì introdotto una sostanziale modifica a quanto dettato dal precedente decreto Ronchi: infatti, la mancanza, nel nuovo regime, di un esplicito riferimento a forme di contaminazione “accidentale” parrebbe far pensare al passaggio dal sistema di responsabilità oggettiva, previsto dall’art. 17 del D.Lgs. n. 22/1997, ad un diverso sistema di imputazione di responsabilità, fondato sull’accertamento di parametri soggettivi di colpevolezza in capo all’inquinatore.
In dottrina qualcuno ha rilevato come “qualora venisse confermato dalla giurisprudenza che la responsabilità dell’inquinatore per la bonifica dei siti contaminati presuppone ora una condotta dolosa o colposa, non può non rilevarsi un arretramento di tutela, posto che non vi è dubbio che l’assoggettamento dell’imprenditore ad una strict liability piuttosto che ad uno standard di due care certamente lo incentiva a considerare maggiormente gli effetti negativi in termini di rischio di incidente che la sua attività provoca nella generalità dei consociati”.
E la giurisprudenza si è attesta, ad ondate alterne, su posizioni diametralmente opposte…
Infine, le problematiche concernenti la gestione delle acque emunte dalla falda durante le operazioni di bonifica…
Tali problematiche – che hanno riguardato non solo la qualificazione giuridica delle acque de quibus, ma anche il regime autorizzatorio degli impianti di depurazione delle stesse e i limiti di emissione applicabili allo scarico – sono state acuite, nel nostro Paese, dalla mancanza, nella disciplina previgente l’entrata in vigore del TUA, di una chiara indicazione normativa.
Situazione, questa, che ha indotto le Pubbliche Amministrazioni coinvolte nei procedimenti di bonifica, sulla scorta dell’opinione espressa dal Ministero dell’Ambiente, hanno qualificato le acque emunte dalla falda, durante operazioni di bonifica come “rifiuti liquidi”, da trattare – ai fini dello smaltimento – in impianti autorizzati ai sensi della normativa sulla gestione dei rifiuti, con conseguente inapplicabilità della disciplina sugli scarichi idrici.
Tale opzione, tuttavia, non solo ha contribuito a rendere più farraginosi i procedimenti di bonifica – arrecando ulteriori oneri amministrativi, sanzionatori ed economici in capo ai soggetti imprenditoriali operanti – ma, in alcuni casi, ha anche condotto a conclusioni paradossali.
Nelle situazioni in cui, infatti, le acque di falda, emunte nell’ambito di procedimenti di bonifica, venivano sottoposte a procedimenti depurativi in impianti posti al servizio dell’attività industriale, e ubicati all’interno del sito da bonificare (come nella fattispecie in esame), si arrivava all’irragionevole e contraddittoria conclusione che nello stesso impianto si effettuava, contestualmente:
- un’attività di depurazione delle acque di processo (al fine di ricondurle entro i limiti di emissione previsti dalla normativa in materia di scarichi idrici) e
- un’attività di trattamento di “rifiuti”, costituiti dalle acque di falda emunte (con caratteristiche simili a quelle di processo), da scaricare entro i limiti, più severi, richiamati dal D.M. 471/99, anche se confluenti nello stesso corpo ricettore mediante la medesima conduttura….
Bene, nonostante il cambiamento di rotta legislativo (l’art. 243 del TUA ha spezzato il silenzio normativo previgente), e una giurisprudenza tuttosommato uniforme, anche in questo “settore” delle bonifiche continuano ad esistere pronunce in un certo senso imbarazzanti, che costituiscono un vero e proprio accanimento interpretativo…
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per poter affermare, senza tema di smentita, che sarebbe necessaria un’autorevole opera di bonifica (del diritto del)l’ambiente…