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Il Blog di Andrea Quaranta

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Postilla » Ambiente » Il Blog di Andrea Quaranta » Normativa ambientale » Incenerimento dei rifiuti sotto la lente di ingrandimento

14 gennaio 2015

Incenerimento dei rifiuti sotto la lente di ingrandimento

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Sul n. 1/2015 della rivista “Ambiente & Sviluppo”, edita da IPSOA, è stato pubblicato un articolo in materia di incenerimento dei rifiuti: un tema molto importante, ma trattato con forse un po’ troppa superficialità dal nostro legislatore.

Se vi collegate a questo link del sito “Edicola professionale“, di IPSOA, potrete trovare un ampio stralcio dell’articolo.

In questa sede vorrei soffermarmi su alcune considerazioni circa il ruolo che l’incenerimento dovrebbe avere nel nostro ordinamento, alla luce di anni di giurisprudenza comunitaria, e di quello che, invece, probabilmente avrà, alla luce delle recenti modifiche introdotte con lo #Sblocca Italia.

In relazione al primo aspetto, ho intitolato il paragrafo un po’ provocatoriamente “L’incenerimento for dummies”…

[…]

Nell’ambito della gestione dei rifiuti, il nostro legislatore, sulla scia di quanto previsto a livello comunitario, ha dettato i criteri di priorità.

La gerarchia prevede innanzitutto la prevenzione nella produzione dei rifiuti, quindi la preparazione per il riutilizzo, seguita nell’ordine dal riciclaggio, dal recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia e, quindi, come extrema ratio, lo smaltimento.

La combustione dei rifiuti è una modalità di gestione border line, nel senso che dal punto di vista tecnico-giuridico può essere considerata come operazione di recupero o di smaltimento a seconda delle modalità prese in considerazione e degli impianti che vengono utilizzati per “valorizzare” il contenuto calorifico dei rifiuti stessi.

A tale proposto, la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare, in estrema sintesi, che la combustione di rifiuti costituisce un’operazione di recupero quando il suo obiettivo principale è che gli stessi possano svolgere una funzione utile, come mezzo per produrre energia, sostituendosi all’uso di una fonte primaria che avrebbe dovuto essere altrimenti usata per svolgere tale funzione, mentre non possono essere presi in considerazione criteri ulteriori quali il potere calorifico, la percentuale delle sostanze nocive dei rifiuti inceneriti o il fatto che gli stessi abbiano, o meno, bisogno di una mescolanza o di un condizionamento con rifiuti altamente infiammabili.

In definitiva, la questione decisiva per la Corte è se i rifiuti vengano utilizzati o riutilizzati per un’autentica finalità. Nel caso di impiego di rifiuti misti in un cementificio, ad esempio, l’operazione costituisce recupero: in loro assenza, infatti, verrebbe comunque utilizzato del combustibile convenzionale.

Lo scopo primario di un inceneritore di rifiuti urbani, invece, consiste nel “trattamento termico ai fini della mineralizzazione degli stessi”, e non può essere considerato nel senso di avere come obiettivo principale il recupero dei rifiuti, anche se durante l’incenerimento di questi si procede al recupero di tutto o di parte del calore prodotto dalla combustione. Questo costituisce solo un effetto secondario di un’operazione la cui finalità principale è quella dello smaltimento dei rifiuti, e non può rimettere in discussione la sua corretta qualificazione come operazione di smaltimento.

Come a dire: tutti gli inceneritori sono impianti di smaltimento, quindi sono all’ultimo gradino della citata gerarchia.

Il nostro legislatore ha tenuto conto di questi saggi principî, tanto che già nel D.Lgs n. 133/05 ha definito:

  • impianto di incenerimento “qualsiasi unità e attrezzatura tecnica, fissa o mobile, destinata al trattamento termico di rifiuti con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione […]”, e
  • impianto di coincenerimento “qualsiasi unità tecnica, fissa o mobile, la cui funzione principale consiste nella produzione di energia o di materiali e che utilizza rifiuti come combustibile normale o accessorio […]”.

Definizione, quest’ultima, ulteriormente integrata dal decreto “emissioni industriali”, che evidenzia che “se il coincenerimento dei rifiuti avviene in modo che la funzione principale dell’impianto non consista nella produzione di energia o di materiali, bensì nel trattamento termico ai fini dello smaltimento dei rifiuti, l’impianto è considerato un impianto di incenerimento dei rifiuti”.

Anche dal punto di vista terminologico, il linguaggio utilizzato finora dal legislatore è sempre stato nei limiti del “politically correct”: trattamento, è un termine giuridicamente “asettico”, che non implica alcun valore (termovalorizzazione) o disvalore (incenerimento).

In relazione al secondo aspetto, nelle conclusioni ho fato riferimento ad un antico modo di dire marchigiano.

C’è, infatti,  un vecchio proverbio marchigiano che, tradotto in italiano, suona così: “se l’arte dei matti non vuoi fare devi dire che il fare e il rifare è tutto un lavorare”.  Come a dire: “quando si fa qualcosa, bisogna farla bene”, specie se questo qualcosa deve durare nel tempo. Specie se questo qualcosa è importante.

Ebbene, se analizziamo la normativa sull’incenerimento emanata negli ultimi mesi non possiamo non cogliere qualche segnale positivo nella razionalizzazione compiuta dal decreto emissioni industriali, specie con riferimento all’inserimento della normativa sull’incenerimento ed il coincenerimento all’interno del corpus del testo unico ambientale, all’eliminazione della disposizione sul danno ambientale e, soprattutto, alle precisazioni sostenibili relative alla definizione di coincenerimento.

Ma non si può rimanere (non solo) giuridicamente impassibili di fronte alla sterzata operata dallo #SbloccaItalia soltanto pochi mesi più tardi, anche se già in qualche modo annunciata dal Governo Letta, che nel collegato ambientale dello scorso anno aveva ipotizzato l’inserimento di un nuovo art. 199-bis all’interno del TUA, con lo scopo “di far sì che i rifiuti non possano diventare fonte di pericolo per la salute dell’uomo e di pregiudizio per le risorse naturali e per l’ambiente”.

Nella relazione illustrativa si evidenziava – all’epoca – che “ricorrente e particolarmente attuale è la discussione apertasi, sia tra i policy makers che tra la pubblica opinione, circa le scelte da compiersi, nel rispetto dei criteri di priorità […] maggiormente idonee a delineare un ciclo integrato e conchiuso dei rifiuti, in modo tale che lo smaltimento in discarica venga ad essere  effettivamente l’opzione finale e residuale, destinata cioè ai soli rifiuti che non si è riusciti a gestire in altro modo o agli scarti derivanti da altre forme di trattamento degli stessi”.

La relazione proseguiva con generici riferimenti:

  • agli “atteggiamenti variegati” relativi alla “questione incenerimento” e alla necessità di “operare un momento di riflessione generale”, per “verificare, tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti […] quale sia l’attuale disponibilità di impianti di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti esistente nel territorio nazionale e quali siano le effettive necessità che debbano essere soddisfatte ricorrendo a nuovi impianti da realizzare”;
  • alla necessità di ottemperare alla procedura di infrazione n. 2011/4021, con la quale la Commissione europea ha contestato all’Italia la violazione dell’art. 16 della direttiva 2008/98/UE per quanto riguarda la mancata creazione nel Lazio di una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento di rifiuti urbani non differenziati.

Della norma non s’è poi fatto nulla, fino allo #SbloccaItalia.

Ma qual è l’impatto complessivo di questa nuova normativa?

Al di là della considerazione circa le tempistiche da osservare – comunque confusionarie – occorre partire dalle contraddizioni intrinseche alla “costruzione giuridica” effettuata dal nostro legislatore, che:

  • da un lato richiama il concetto di smaltimento (“è l’Europa che ci chiede di adottare una integrata ed adeguata rete di impianti di smaltimento dei rifiuti”), salvo farlo in modo non completo,
  • dall’altro sancisce (invece) di trattare la termocombustione dei rifiuti negli inceneritori alla stregua di operazioni di recupero, sia pure con qualche formale

Verosimilmente sembra non possa trattarsi di un “lapsus” (parlare di smaltimento e di recupero ha due significati molto diversi, non solo dal punto di vista sociologico-comunicativo, ma anche e soprattutto da quello giuridico); più prosaicamente, sotto traccia sembra leggersi il tentativo di (confondere le idee) comunicare che finalmente con lo #SbloccaItalia il nuovo Governo non solo ha concretamente ottemperato a quanto chiesto da Bruxelles, ma ha addirittura migliorato quanto “ci è stato chiesto”, dal momento che con le operazioni prospettate non si compie una semplice attività di smaltimento ma quella più virtuosa di recupero (pardon: di termovalorizzazione).

Rimane (molto) vago il riferimento alla necessità di realizzare il “progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale”.

Di “sociale”, al di là dell’enfasi con la quale viene effettuata, non c’è neanche la comunicazione – che spaccia per recupero ciò che in realtà è smaltimento – mentre di economico c’è soltanto il fatto che le regioni, con la novità introdotta dal nuovo comma 7, potranno monetizzare l’utilizzo “in impianti di recupero energetico” dei rifiuti urbani provenienti da altre regioni, chiedendo ai gestori fino ad un massimo di 20 €/t che, in periodi di “scarsa liquidità”, come quello attuale, é difficile immaginare che verranno utilizzati per gli scopi virtuosi, ma “meno impellenti”, ipotizzati dal legislatore nazionale. Come a dire che viene fatta sostanzialmente salva, forse incentivata, la possibilità di far circolare liberamente l’immondizia da una regione all’altra.

Anche il concetto di “saturazione del carico termico” – e quello correlato di effettiva necessità di impianti di incenerimento/recupero – appare contraddittorio e confusionario.

A parte il fatto che il richiamato art. 237-sexies sancisce che l’autorizzazione deve contenere esplicitamente anche “la capacità nominale e il carico termico nominale autorizzato” e non che “l’impianto deve essere autorizzato a saturazione del carico termico”, occorre piuttosto chiedersi sulla base di quali dati verrà calcolata la presunta “necessità effettiva” di nuovi “impianti di recupero”.

Innanzitutto, occorre considerare che, se gli impianti, vecchi e nuovi, saranno autorizzati a “saturazione del carico termico”, ovviamente l’effettiva necessità di ulteriori impianti dovrebbe essere minima, a parità di rifiuti da (incenerire) “recuperare energeticamente”.

Quindi, partendo dalla considerazione che, nell’ambito della più volte richiamata gerarchia, la termocombustione di rifiuti in impianti di incenerimento (che costituisce un’operazione di smaltimento, nonostante il make-up giuridico) dovrebbe stare giusto un gradino sopra lo smaltimento in discarica, e in ogni caso sotto il coincenerimento, l’incenerimento dei rifiuti, anche con valorizzazione del potere calorifico degli stessi, dovrebbe comunque costituire una forma di gestione dei rifiuti residuale.

Infine, occorre chiedersi se la quantità (enorme) di rifiuti che si vorrebbero (incenerire) “recuperare energeticamente” sia dovuta all’impossibilità tecnica di “gestire in altro modo” i rifiuti, all’incapacità logistico-normativa di implementare una reale gestione integrata dei rifiuti o, ancora, e piuttosto, alla necessità di comunicare un problema (recuperare rifiuti che invece l’Europa ci chiede si smaltire) che, non potendo essere altrimenti risolto, si è ideato di gestire in questo modo.

Senza dimenticare il fatto che la presunta necessità di ulteriori inceneritori – la cui ragione di esistere è soltanto quella di continuare a bruciare (sempre più) rifiuti – è antitetica al perseguimento della gerarchia nella gestione dei rifiuti….

Ma sembra che il Governo ritenga sufficiente limitarsi ad un make-up normativo (un banale quanto semplice giro di parole) per risolvere il problema, senza immaginare che, così facendo:

  • rischia seriamente di perseguire obiettivi “altri” rispetto a quelli dichiarati (e quindi mancherebbe di legittimità/credibilità/consenso),
  • non affronta l’annoso problema della gestione integrata e sostenibile dei rifiuti, ma lo continua a rimandare. Alla faccia della vagheggiata modernità.

Ma il più bello deve ancora venire, e riguarda l’adeguamento degli inceneritori esistenti, laddove le autorità competenti dovranno valutare, in tempi molto ristretti, l’eventualità di “promuovere” i vecchi inceneritori ad impianti di recupero energetico R1, revisionando, negli stessi tempi stretti, le relative AIA: una fretta che non si spiega altrimenti se non con la necessità di non dover trovare troppo a lungo giustificazioni per un’operazione retroattiva dalla dubbia legittimità (quantomeno politica).

Una fretta che si accompagna a quella – sia pur “ridimensionata” – relativa al “dimezzamento dei termini”.

Quanto agli impianti nuovi, invece, il legislatore dà per scontato che saranno tutti impianti di recupero…

In conclusione, la sensazione è, appunto, quella che richiama quel “fare e rifare, che è tutto un lavorare”.

Un “darsi da fare” – come al solito giustificato dalla necessità di fare (che è reale) senza tuttavia curarsi di come fare – che sembra aver prodotto più che altro un nuovo “scollegato ambientale”: insomma, l’arte dei matti.

Non si tratta – chi scrive ci tiene ad evidenziarlo – di una posizione para/anti-incenerimento dei rifiuti, ma (molto più prosaicamente) di considerare lo smaltimento mediante incenerimento per quello che è: un semplice strumento.

Utile e necessario nei limiti in cui viene:

  • usato – in modo corretto, adeguato, integrato, contestualizzato – per realizzare una gestione dei rifiuti integrata, efficiente, efficace, “moderna” e di prospettiva, perché deve durare nel tempo in quanto essenziale per il perseguimento (e il mantenimento) delle sostenibilità;
  • comunicato senza giri di parole, senza ricercare continuamente scusanti per poter (nella sostanza) giustificare il suo ab-uso, attraverso banali campagne comunicative di “serie B” che, tuttavia, sono efficaci nei confronti dei non addetti ai lavori.

Che però sono tanti…

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